Gaetano e Antonio si incontrano a 13 anni nel Seminario di Seveso, nel lontanissimo 1953. Si scoprono originari dello stesso paese di Casatenovo Brianza, uno nella frazione di Rimoldo e l’altro al Villaggio Vismara. Eravamo in tantissimi, felici e spensierati con il sogno di arrivare ad essere sacerdoti. Il cammino è lungo e le strade si dividono con Gaetano che diventa sacerdote salesiano nel 1967 e Antonio sacerdote diocesano nel 1964. Le amicizie vere, però, non si spengono mai.
Gaetano viaggia per l’Italia e nel 1997 finisce sulle Ande del Perù per poi scendere sui fiumi dell’Amazzonia nel 2007, nominato Vescovo di Pucallpa.
Antonio ha un percorso diverso: Italia, Zambia in Africa, Italia e finalmente Perù, a Huacho, sull’Oceano Pacifico, nel 2007.
Ci si ritrova al Velodromo Vigorelli di Milano nell’ottobre 2007. Il Cardinale Tettamanzi mi dà la croce con i colori dei cinque continenti come missionario; Gaetano non ne ha bisogno perché ha già la croce pettorale di Vescovo.
Perù ci riunisce e ci divide in zone diversissime con la promessa solenne di ritrovarci. Passano 11 anni, mille contrattempi, ma vince l’amicizia. Antonio lascia il deserto e la nebbiolina della costa e vola verso il sole, il calore, il cielo azzurro, le foreste verdi e i fiumi immensi dell’Amazzonia per ritrovare Gaetano, l’amico Vescovo.
Viaggia con me Don Vittorio Ferrari, parte del sogno diventato realtà per poter incontrare i milanesi già approdati a Pucallpa: don Andrea, don Silvio, don Luca e la coppia di sposini sevesini Giacomo e Silvia.
Lunedì 1 ottobre, scendiamo dall’aereo, dopo solo un’ora di volo, nel clima infuocato della Selva amazzonica accolti subito dal sorriso di Mons. Gaetano. “L’era ura de vegnè” avrebbe detto in dialetto brianzolo, cioè: “Era ora di venire!”
Sì, ci siamo, finalmente. Ci porta in Seminario con solo otto seminaristi, guidati da don Marco di Besana Brianza. Qui già mi tocca cambiare i vestiti invernali di Huacho perché sto sudando sette camice. Per fortuna non ci sono zanzare e non è il tempo delle piogge. Pucallpa ha 600. 000 abitanti, 40 mila moto taxi, come seconda città di tutta l’Amazzonia peruviana, ed è adagiata sul fiume Ucayali, fonte di tutto il suo benessere, sviluppo positivo e negativo.
Come turista frettoloso scelgo i luoghi principali: il fiume, il porto e la Cattedrale.
Il fiume Ucayali nasce dalle montagne delle Ande a Cusco, si snoda per 1.600 chilometri e si getta nel grande Rio delle Amazzoni, lungo 6. 992 chilometri, che lo accompagna in Brasile fino all’Oceano Atlantico. A Pucallpa dà vita a un porto che sembra super caotico ma ha una importanza enorme per l’arrivo dei barconi con il pregiato legname della foresta. Da questo porto partono giorno e notte piccole navi, battelli, motoscafi, scialuppe, barchette a remi per passeggeri e mercanzia, perché da lì in avanti non esiste nessun tipo di strada: è il fiume che domina in tutta la sua bellezza e pericolosità.
Mi accontento di passare alcune ore con un lento motoscafo sulla laguna Yarinacocha lunga 12 km. Una pace su acque tranquillissime, sponde piene di alberi con piccole radure con case tipo palafitte, qualche barchetta di pescatori qua e là, centinaia di gabbiani bianchi e di altri uccelli neri che svolazzano nel cielo per poi scendere in picchiata sulle acque per afferrare qualche pesciolino. Sole dolce e colori vivaci della natura. Obbligatoria una sosta sulla terraferma per poter entrare almeno per 20 metri nella jungla vera con i suoi alberi altissimi in un sottobosco impenetrabile. Lì ho visto i famosi serpenti anaconda immensi e pericolosissimi anche in gabbia. Ho dato la mano a una scimmietta, meno bella di quelle africane che mi rubavano la coca cola. Lì ho visto i goffi tapiri, i grandi pappagalli, i coccodrilli avvolti nel fango e i leopardi tristi e addormentati nelle loro gabbie.
Rimpiango le scorribande nella savana africana tra gazzelle, leoni, elefanti, bufali e stupende e saltellanti gazzelle. Prima di ritornare al porto trafficatissimo, mi lascio come abbracciare da un albero della foresta, triste perché non ho avuto tempo di incontrare nessun indigeno Shipibo, come aveva fatto Papa Francesco a Porto Maldonato nello scorso gennaio.
Il porto mi ha fatto un po’ paura per la tanta gente, montagne di banane e un mercato ricco di tutto ciò che proviene dal fiume. Ho intravvisto da lontano le chiatte piene di immensi tronchi di pregiatissimo legname. Non ho visto però la “droga” che dicono che qui abbia uno dei suoi canali preferiti di transito.
Pace incontro invece nella Cattedrale dove ritrovo don Vittorio che subito si mette in preghiera con gli occhi puntati al tabernacolo. A lui interessano poco anche le stupende vetrate e nemmeno il campanile slanciato verso il cielo e la struttura architettonica della originale Cattedrale. Si lamenta però – e ha ragione – di vederla con le porte chiuse quasi tutto il giorno.
Il mio interesse turistico punto l’ultimo sguardo sull’altissimo albero di mango del cortile del Vescovado che fa piovere a terra i suoi appetitosi frutti tre volte al giorno, con la gioia di chi li raccoglie e subito li mangia passeggiando in mezzo a coloratissimi fiori.
Il vescovo Gaetano è orgoglioso di presentarci la sua squadra di sacerdoti, 32 in tutto. C’è una base di giovani preti peruviani e poi missionari da vari continenti, nazioni, lingue e anche età diversissime. Sono arrivati dal lontanissimo Giappone, dalla Corea, dal Benin in Africa, dall’Italia, dalla Francia, dal Canada, e dal Messico, chiamati sempre dallo stesso Gesù a seminare in questo pezzetto di terra.
Abbiamo la fortuna di trovarli tutti uniti per il ritiro mensile nel seminario. Nessun problema nel salutarci con naturalezza, anche noi due siamo parte dello stesso sogno pastorale nell’unica Chiesa cattolica. Partecipiamo ai pensieri spirituali presentati dal Vescovo stesso e ai temi contingenti della vita delle dieci parrocchie che sono in città ma anche con la responsabilità di comunità indigene sparse lungo il fiume Ucayali, raggiungibili solo dopo ore o giorni di navigazione.
Momento tutto nostro è quello della concelebrazione della Messa nella cappella del Seminario. Lì c’è la Chiesa viva, attorno al Vescovo che ci ricongiunge agli Apostoli e allo stesso Signore Gesù. Pacata e serena è l’omelia, armoniosi i canti dei seminaristi e ben ritmato tutto il rito con i 32 sacerdoti fino al momento conclusivo della processione verso l’altare per la Comunione personale.
Al momento della cena, si sciolgono le lingue dal silenzio del ritiro e si cominciano a intrecciare dialoghi mentre si gustano i piatti della selva.
Attorno ai vari tavoli si formano gruppo di amici sempre con i sacerdoti più giovani che si distinguono per il tono della voce, l’allegria e le battute di spirito. Al tavolo d’onore – semplicissimo – il Vescovo chiama me e don Vittorio per chiacchierare partendo dai ricordi del Seminario del 1953! Siamo tutti e tre avanti negli anni e ancora in possesso di una buona memoria per ricordare i nostri professori di latino o il rettore molto severo.
La notte mi fa sudare, il clima è tropicale, ma per fortuna nessun serpente è entrato nella mia camera.
La mattina di martedì è dedicata ai temi pastorali della Diocesi, ma io preferisco fare un giro nel grande parco del seminario che ha anche due laghetti, alberi da frutta e naturalmente un campo di calcio.
La sorpresa arriva al momento del pranzo quando tutta la compagnia si mette in macchina per raggiungere la casa del Vescovo in centro città. Lì c’è il refettorio ufficiale, aperto tutti i giorni dell’anno per tutti i sacerdoti che desiderano mettersi a tavola, gratuitamente, con il Vescovo. Piatto ambitissimo per tutti è la pastasciutta italiana con i giusti ingredienti, più di uno fa il bis. Spuntano dalla cantina segreta del Vescovo alcune bottiglie di vino pregiato italiano, poi un buon gelato, un caffè prodotto della selva stessa e qualche goccia di liquore per una buona digestione. Anche questo favorisce la fraternità sacerdotale che unisce il giapponese al canadese, l’italiano al peruviano, tutti in serena amicizia.
Verso le tre del pomeriggio ognuno ritorna alla sua parrocchia.
Il centro del nostro viaggio è l’incontro con i sacerdoti diocesani di Milano, ora missionari nell’Amazzonia. Don Andrea Gilardi è immerso nei temi sociali e caritativi della diocesi dopo anni come parroco. Gentilissimo ci accompagna qua e là. Don Silvio Ardian è responsabile di una nuova parrocchia, attualmente però è in Italia, suo papà è volato in cielo da pochi mesi. Don Luca Zanta ha solo un anno in Perù speso per imparare la lingua e ora per guidare una parrocchia proiettata anche verso una comunità indigena sul fiume. Ha tanti progetti in mente. I giovani sposi Giacomo Crespi e Silvia Caglio ci dicono emozionati della nuova esperienza che stanno vivendo, quelli di essere presto genitori. Nel frattempo si danno da fare per aiutare gli “indocumentati” cioè senza carta di identità e per seguire un gruppo giovanile, grazie anche alle qualità artistiche teatrali di Giacomo. Hanno sempre un bel sorriso, tutti e due.
Iniziamo l’ultima giornata con una Messa, intima diciamo, solo noi due nella cappellina del Vescovado. Tocca a don Vittorio come celebrante principale fare una piccola omelia in tono familiare. Siamo solo in due, ma sentiamo presenti con noi le migliaia e migliaia di persone che abbiamo incontrato nei nostri più che 50 anni di sacerdozio.
È arriva la parte più desiderata, parlare con Mons. Gaetano. A 78 anni si stava preparando a lasciare la Diocesi, aveva già fissato la data ufficiale del saluto finale, ma non c’è il successore! Dicono che già era stato designato, ma poi ha mandato una lettera personale a papa Francesco rinunciando alla nomina. Ci permettiamo di dire: “Avanti Gaetano, ti vediamo camminare bene, notiamo che sei stimato dai tuoi 32 sacerdoti, la Diocesi è modellata dalle tue mani, continua”.
Con me il conversare include Casatenovo, il nostro paese di origine, le nostre comuni amicizie dai tempi del seminario, mia sorella missionaria e suo fratello missionario, le gioie e le fatiche che ognuno ha nel cuore, unito alla gioia di questa nostra esperienza missionaria in luoghi e culture così diversi dalla nostra verde Brianza. Le ore passano veloci, è tempo di andare a tavola nel suo speciale refettorio, sempre aperto ai sacerdoti che arrivano, salutano, mangiano, bevono il caffè e poi tornano ai loro impegni. Il Vescovo è contento.
Il pomeriggio, Mons. Gaetano ci porta a vedere due dei suoi gioielli: un centro medico polifunzionale e una parrocchia – oratorio. Come autista guida bene, ma non ha ancora digerito il traffico caotico alla peruviana!
Sono indiane le suorine che ci accolgono con un sorriso alla Madre Teresa nel centro di accoglienza per i casi più difficili, con una palestra per la riabilitazione, un ambulatorio, una piccola farmacia e una bella cappellina. Si respira la carità vera, fatta di piccole attenzioni verso i più necessitati.
Il Vescovo carica sulla camionetta un letto speciale da portare a una parrocchia proprio nel mezzo di una zona povera in periferia con case di legno. Entriamo in un immenso spazio con una Chiesa moderna dedicata a don Bosco, campi da gioco, falegnameria, laboratorio artistico, casa di accoglienza, il tutto condito da uno stile di semplicità e serenità, guidata da don Massimo, un giovane valtellinese, alto e forte, uno dei tanti fiori sbocciati nel giardino del Mato Grosso di don Ugo de Censis. Ci sono anche due asinelli che si muovono qua e là liberamente, sotto però il controllo di un ragazzo, mi pare sordomuto, contento di questo incarico.
Ma la giornata non è finita, manca la cena con tutto il gruppo milanese. “Ma dove andiamo?” “Venite a casa mia, cucino io un risotto alla milanese da chef” dice don Luca. Vedo facce dubbiose che però si trasformeranno in volti soddisfatti dopo aver mangiato con abbondanza il piatto di Luca, sudatissimo e contento con il suo padellone di riso fumante. Si ride, si scherza, si parla di tutto, sport compreso, sembra di essere in una tipica trattoria milanese, mentre ci si trova sul Tropico in piena Amazzonia.
Un canto che piace a don Vittorio dice: “La festa è già finita, ma è appena cominciata…”
Giovedì 4 ottobre, festa di San Francesco di Assisi, Mons. Gaetano
ci porta all’aeroporto per il primo volo del mattino, i legami di amicizia si sono rafforzati. Cinque ore dopo siamo già a casa, a Huacho.
È il terzo anno che superiamo la porta del carcere di Carquin con un pallone e una coppa in mano. Con me ci sono 14 giovani universitari, cresciuti nel mio vivaio dal nome Club deportivo padre Antonio Colombo. Con noi l’allenatore Moises Racchumick e il fotografo Carlos Grados. Non abbiamo più difficoltà burocratiche all’entrata, ci sentono e siamo amici, attesi da più di un mese dalle 5 squadre dei 5 padiglioni. Questa volta non c’è la squadra della polizia interna che sempre dava tanto filo da torcere. Già la fase eliminatoria è al fuoco ardente, nessuno vuole cedere il passo neanche dopo i primi tre calci di rigore con bravissimi portieri che volano da un palo all’altro. Si gioca su un campo in cemento, adatto per il calcetto a 6 giocatori. La mia squadra B gialla è subito sconfitta con esultanza dei tifosi carcerati del 2° padiglione. La squadra A azzurra ha lottato fino alla semifinale già credendosi vincitrice alla fine del primo tempo con il vantaggio di 3 – 0. Ma gli avversari non demordono, ricuperano, pareggiano a quota tre, passano in vantaggio ma poi sono raggiunti sul 4 a 4. Ai rigori vince il 4° padiglione che felice vola alla finale. Le maglie della polizia interna sono più larghe quest’anno così che ogni squadra gode dell’appoggio di tifosi ben attrezzati con trombe e anche tamburi. Ogni gol è una piccola festosa invasione di campo che riescono anche a coinvolgermi. Ma la matematica finale non perdona, dopo il pareggio c’è sempre la roulette russa dei rigori, ogni colpo può essere mortale. Si sta lottando da quasi cinque ore quando il tiro fortissimo del capitano del 4° padiglione sfonda la rete.
Tacciono i tamburi del 3° e comincia la danza del 4° pronto ad afferrare la preziosissima Coppa Antonio Colombo. Spontanea nasce una festa che coinvolge anche i miei 14 universitari che si mischiano con i vincitori, senza problema, ormai si conoscono da anni. Il trofeo è sempre un trofeo, anche senza champagne. Spunta il fotografo ufficiale del carcere perché l’evento entra nella storia, dando onore anche al Direttore che lo ha favorito. Oltre la Coppa ci sono 100 soles per comperarsi la coca cola e – a sorpresa – un set di maglie venute da lontano, dall’oratorio di Cerro Maggiore, con i colori della squadra GROG di cui io ero il capitano e capocannoniere, quarant’anni fa.
La miglior foto dell’anno è proprio scattata nel carcere, mi vedo al centro toccando il cajòn, con 11 amici del 3° che mi si stringono addosso, specialmente il simpaticissimo gigante Franz che mi avvolge con il suo braccio sinistro mentre con la mano destra esprime la gioia di un trionfo.
La foto finale mi vede sulla spiaggia dell’Oceano che lambisce il carcere. Mi sento stanco e contento per il miracolo che anche un pallone può fare quando è calciato bene, superando qualsiasi sbarra di divisione.
Avevo solo 14 anni quando sono andato a Roma per la consacrazione vescovile di Monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI.
Sono tornato a Roma a 18 anni quando lo hanno elevato al titolo di Cardinale e poi a 23 anni per vederlo come Papa, stando a solo 20 centimetri di distanza, pochi giorni prima della mia ordinazione sacerdotale.
Ma le foto in bianco e nero non sono solo quelle romane, una mi vede nel seminario di San Pietro in Seveso come chierichetto che porta la croce accogliendolo alla sua prima visita. Unica è quella con l’immancabile veste nera da seminarista, a 19 anni, mentre mi inginocchio a baciare il suo anello vescovile al Seminario di Venegono.
Il momento più sacro è quando mi ha dato la tonsura, quel circolino bianco in mezzo alla nuca che tutti i preti avevano fino al Concilio Vaticano II. Era il 27 giugno 1962, nella Basilica di Venegono con altri 70 compagni. Il Cardinale Montini mi ha chiamato per nome, Antonio, io ho risposto “ADSUM sono qui” e poi lui con un paio di forbici in mano ha tagliato ciuffi dei miei capelli ai quattro angoli della testa. Quale è il significato? Ce lo ha spiegato lo stesso Cardinale con la sua voce profonda e chiara. ”È come il primo gradino, è la soglia: per qui si comincerà a salire la grande scala della Ordinazione sacerdotale. La Tonsura è l’ingresso alla vita ecclesiastica. Abbiamo cominciato chiamandovi per nome. Che chiamata! Era la mia o quella di Dio la voce? E voi con una semplicità avete detto la parola ‘Adsum, sono qui’, come quando il Signore ha chiamato gli apostoli. In questo nome e cognome detto dall’altare, al quale voi avete detto: Adsum, sta la vocazione sancita e ratificata. Voi avete realizzato la pagina del vangelo come gli apostoli che lasciarono ogni cosa… E credevate voi che io fossi tranquillo mentre facevo questa operazione così insolita, si potrebbe dire banale, di tagliarvi i capelli? Credete voi che la mia mano non tremasse e che io non comprendessi che cosa stavo facendo, spogliandovi di ogni speranza umana, vi sradicavo dalla terra per portarvi in un’altra regione all’unico servizio di Dio? Vi ho strappato i capelli e poi… vi ho vestito di bianco, candidi, diventate oggi candidati, bianchi puri, angelici. Questo indica la cotta bianca, l’abito che avete ricevuto, l’uomo nuovo che avete rivestito. Una forza nuova che vi rende franco il passo e lieta l’anima che conduce alla meta”.
Di questo suo discorso conservo qui con me i fogli ingialliti del 1962.
Anche il mio essere missionario nasce da lui, il primo Cardinale di Milano che ha aperto ai suoi sacerdoti diocesani le porte dell’Africa fin da 1960.
Ora è Santo dal 14 ottobre. Anche Huacho lo ricorda con il salone Paolo VI dove sta interrata dal 1970 la prima pietra della attuale cattedrale, ricostruita dopo il terremoto del 1966.
La “colpa” è di Papa Francesco con il suo amore sviscerato per i poveri, tanto da metterli al centro di una Giornata Mondiale tutta per loro, una settimana prima della festa di Cristo Re.
Al Papa si ubbidisce. Poi tocca ad ogni parrocchia ingegnarsi sul come e quando.
Qui ci siamo ingegnati unendo due parole - Kermesse e bingo – per raccogliere soldi giocando a profitto dei poveri che non mancano certo da queste parti.
Domenica 11 novembre, il cortile della cattedrale assume un tono gioioso come per una festa di paese con tavoli e sedie da tutte le parti, pentoloni pieni di cibi appetitosi da mangiare mentre si tiene d’occhio la cartella del bingo. Ho tentato di contare le persone, ma non ci sono riuscito erano tutte sparse qua e là cercando anche un posto all’ombra, comunque si superava i 500.
Kermesse qui indica una festa che nasce dal mettere in vendita, per scopo benefico, piatti squisiti che ognuno prepara in casa sua. In più c’è la musica e il gioco del Bingo, tipo tombola all'italiana, con premi a chi riempie la cartella secondo i numeri e una lettera dominante. Almeno tre ore con i numeri scanditi dalla voce forte e chiara di Rafael, mentre toccava a Gustavo controllare l’esattezza delle cartelle vincenti.
Il bingo è riuscito bene come partecipazione, allegria e un positivo bilancio economico. Il primo premio di 500 soles toccò a un bambino! C’è stato un momento di imbarazzo quando arrivò al tavola della giuria proprio un bambino di solo 9 anni gridando di gioia e sventolando la cartella fortunata. Ma un bambino piccolo non può tenere in mano tanti soldi in contanti, li potrebbe sciupare o glieli potrebbero rubare. Che fare? Dopo vari minuti di incertezza spunta la sua zia che si fa garante di tutto.
Si è unito l’utile con il dilettevole con una cifra più che sufficiente per fare contenti i poveri.
Domenica 18 novembre, sono arrivati per la Messa 250 "poveri", cioè amici di Gesù e nostri. Papa Francisco ci ha svegliati tutti. con il motto di quest’anno: "Il povero gridò e il Signore lo ascoltò".
Una commissione delle confraternite ha davvero provveduto a tutto, dagli inviti personalizzati, al menù, i regalini, la disposizione dei tavoli, la musica, le danze e soprattutto un’accoglienza bella, vera.
Chi sono i poveri della nostra parrocchia? Quelli che frequentano ogni giorno la nostra mensa popolare, i ragazzi del doposcuola, le donne della terza e quarta età, il gruppo di persone con difficoltà motorie, ragazzi e ragazze della Beneficenza pubblica, anziani della stessa organizzazione, anziani di un ricovero e- novità - i nuovi poveri immigranti del Venezuela.
Il momento più toccante della Messa fu il canto alla Madonna di Coromoto protettrice del Venezuela. Mentre un giovane toccava la chitarra e cantava si vedevano le signore con gli occhi inumiditi dalle lacrime, fede e nostalgia per la patria lontana.
Ordinatamente tutti sono entrati nel salone Paolo VI ben arredato con posti riservati per ogni gruppo. Nella danza spiccano gli anziani della Beneficenza con un ritmo colombiano e armonia dei movimenti, davvero ancora agili. Si è chiesto il bis tra grandi applausi. Anche le ragazze con il ballo del tondero hanno suscitato ammirazione, mentre la piccolissima Melani di 5 anni ha fatto un asolo tenerissimo, nel silenzio di tutta la sala. È sceso il silenzio interessato quando tutti hanno avuto davanti il loro piatto di riso con pollo con contorno di verdura mista. Anche i venezuelani hanno gustato questo piatto tipico, tanto da animarsi a cantare tutti insieme, cioè 14 adulti e 5 bambini scatenati e un bimbo di pochi mesi. Sono loro i nuovi “poveri” , giovani come età, eleganti nel vestire, ma con un velo di tristezza sul volto. Hanno coraggio con l’arte di sapersi arrangiare.
Nelle feste anch’io mi diverto anche se poi mi è venuta una gran stanchezza addosso.
Grazie a tanti volontari, dalle cuoche all’anonima signora che ha regalato le due torte. Dice la Bibbia che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Questo mi ha detto, con sue parole, uno degli organizzatori: “Oggi ho imparato tante cose, non le dimenticherò”.
Tutta per me la prima pagina del giornale regionale El Chaski del 31 ottobre.
Una grande foto con il volto sorridente e una piccola scattata all’interno dell’ambulanza. Parole a caratteri cubitali: PREGATE PER PADRE ANTONIO.
L’amato parroco di Huacho ha avuto una ricaduta della sua salute e uno scompenso nella chiesa di Barranca. Il personale del pronto soccorso SAMU lo soccorse e dovette trasportarlo di emergenza all’ospedale di Huacho.
A pagina tre la cronaca dettagliata che semplicemente traduco.
“Ha sofferto uno scompenso mentre visitava la chiesa di Barranca.
Padre Antonio ha avuto una ricaduta nella sua salute.
Personale del SAMU lo stabilizzò e lo trasportò all’Ospedale di Huacho.
È stato uno spavento. Verso mezzogiorno il personale del SAMU (pronto soccorso e ambulanza) di Barranca accorse per emergenza alla chiesa della città per attendere al sacerdote Antonio Colombo che ha avuto uno svenimento dentro il tempio. I medici hanno prestato i primi soccorsi per ristabilizzarlo della febbre a 39 gradi e poi lo trasportarono con una ambulanza all’Ospedale di Huacho, a 60 km di distanza, per poter ricevere cure specializzate. Il sacerdote restò ricoverato per alcune ore, per essere dimesso a sera tardi per poter andare a casa sua, a un centinaio di metri di distanza, nella Urbanizzazione Huacho. I medici hanno continuato ad interessarsi per il miglioramento della salute del parroco. Occorre ricordare che il religioso aveva subito un intervento al cuore alcuni mesi fa. Attraverso le differenti reti sociali molti amici e fedeli elevarono molte preghiere per una pronta ripresa del sacerdote italiano Antonio Colombo”.
Fin qui il giornale ripreso da Facebook e lanciato nel mondo con 123 approvazioni, 83 commenti e 8 condivisioni.
Dall’Italia scrive Volpi Emanuele: Auguri per una pronta guarigione associati a una preghiera perché Nostro Signore possa aiutarla a guidarci ancora per parecchi anni”. Dall’Africa invece Suor Nicoletta Kiaro Marete scrive: “Dio ti vuole bene e ti darà la salute per continuare con la grande missione che ti ha dato. Ti accompagno con la preghiera. Coraggio!
Ho dovuto guarire per forza!
Anche dal letto dell’ospedale o chiuso in casa per convalescenza, non ho mai smesso di seguire il mio gruppo calcistico impiegato su tutti i fronti.
È anche un grosso impegno economico che condivido con amici, però è sempre bello vedere sette squadre giallo vestite con una colomba sul petto correre e anche vincere a livello locale e regionale. In casa mi sono arrivate 4 coppe su 7, mentre sogno la quinta della terza categoria. Primo posto per la categoria sub 16, secondo posto per sub 14, terzo posto per sub 12, terzo posto per sub 8. Continuano a brillare le due stelle, Sneyder di 13 che ho visitato nel complesso dello Sporting Cristal (tipo Milanello per gli esperti) e Kenyi, goleador a livello regionale. Vedo ragazzi contenti, con le loro famiglie orgogliose dei progressi.
Ma è tempo di pensare al Natale ed è già pronto il calendario 2019.
Padre Antonio Colombo
Huacho 6 Diciembre 2018